lunedì 23 gennaio 2017

CIEL/TERR Poesia di Dražen Katunarić introduzione di Comasia Aquaro




                               
CIEL/TERRE     di    Dražen Katunarić
  
Introduzione di Comasia Aquaro

                                             
                                                        Avevo infatti, in piena sincerità di spirito,
                                  assunto l'impegno di restituirlo
al suo stato primitivo di figlio del Sole, -
                                                                                   ed erravamo, nutriti del vino delle caverne
e del biscotto della strada,
                                                                                                        io ansioso di trovare il luogo e la formula.
                                                                                                               
                                                                                                                                                                                           (Arthur Rimbaud)

  
  
 Il mio amico scrittore e poeta Dražen Katunarić, mi donò qualche anno fa un suo libro  di poesie intitolato  Ciel/Terre: una versione francese tradotta  dal croato, da Borka Legras, Vanda  Mikšic e Fernand Cambon  con la supervisione di Gérard Adam  e pubblicata in Belgio nel 2008  dalle edizioni  L’ARBRE A’ PAROLES. Dopo averlo letto e  tradotto  in italiano, è rimasto troppo a lungo sul mio tavolino in attesa di essere reso noto in Italia, preferibilmente con una traduzione che si riferisse al testo originale in lingua croata. Ahimè, finora non è stato possibile! Mi limito,  pertanto, a presentare  qui qualche poesia tratta dal libro in questione che offre comunque, secondo il parere dell’autore, un’ottima traduzione in lingua francese. I pochi testi che qui presento, probabilmente,  non saranno sufficienti ad evidenziare  la  complessità  del cromatismo poetico presente  nell’intera  raccolta di  Dražen Katunarić e che,  suppongo, caratterizzi grosso modo, tutta quanta la sua poesia.
   CIEL/ TERRE  presenta molti piani di interpretazione e vari registri di scrittura le cui voci e sonorità  danno vita a  un linguaggio schietto, al tempo stesso accurato e teso all’essenziale. Il poeta intaglia e incastona con precisione,  all’interno del discorso poetico, tutte le variabili dell’animo umano, fino al sottile gioco dell’autoironia. Pondera, delimita e isola la parola fino a svuotarla, al fine di potenziarla:  essa diviene pertanto, lucida essenza dalla quale si irradiano  molteplici direzioni di senso.
   La riflessione profonda e sofferta del poeta sul mondo e l’umanità, si fa sentire  attraverso un’oscillazione marcata del ritmo: suoni acuti o gravi  ne scandiscono  i tratti più drammatici,  i quali si aprono di colpo  in spaccature di silenzio che ne suggellano il mistero,  da cui quasi a sorpresa, arriva all’orecchio del cuore la verità della poesia.
   Cielo e  terra,  pur avendo una distinta  figurazione all’interno dello spazio poetico, costituiscono insieme un’unica forma il cui ritmo ha  un unico respiro: si tratta di una fusione alchemica nella quale sono coinvolti sia  soggetti  naturali, (gli animali, i boschi, il mare, la terra, le pietre, ecc.) che  altri  più   rappresentativi  del  sacro (il cosmo, il cielo, Dio, la natura nella sua interezza, nonché la Poesia stessa). Questa osmosi tra   Terra e  Cielo  -   universo interiore e universo esteriore,  trascendente e immanente -   vita a una poesia caleidoscopica attraverso cui la natura stessa svela  la verità dell’esistenza, lacerando il velo sacro del Divino, nel quale  essa stessa è avvolta. Tutto il reale pertanto, risulta trasfigurato, ma  mai   falso o stranito rispetto alla storia.   La terra stessa, non è lo sfondo o la cornice del discorso, ma essa stessa nella sua concretezza  si fa  poesia: lo sguardo del poeta è rivolto,  infatti, ai  muti isolani / dai piedi lacerati / gli abitanti delle rocce”, e ne scruta i volti, le “… fronti avare segnate” da un vissuto  che resta  inciso sui loro “ visi scolpiti”, la cui durezza  indica la  forza, la tenacia e  la resistenza  di questa gente,  che  ha dovuto affrontare   un percorso storico  arduo   e lacerante. Le pietre stesse delle sue spiagge,  stigmatizzano l’origine dura e aspra di questo territorio, le asperità e gli ostacoli  della sua storia.  E’  un canto che proviene dalle “fredde profondità”, in cui è inabissata la terra del poeta e nelle quali  lui stesso è  immerso, per  scandagliare e  cercare   di captare il segreto della poesia: la sua radice di verità sommersa che, quando emerge, denota  una terrestrità differente, con strati profondi e occulte fondamenta. E’ una  ricerca intensa e tenace,  quella di Dražen Katunarić,  che  porta spesso alla luce  frammenti di saggezza, come ad esempio, in queste righe tratte dalla parte intitolata  “Stigma”:

« Molti sono pronti a salire sul piedistallo, ma che sia  all’altezza della base di una montagna che si sposterà senza che nessuno se ne accorga.»

   Seguendo lo sguardo del poeta, interamente rivolto alla Terra, al mare, agli uomini, agli animali, al cielo e alla Natura tutta, si può decifrare la scia di una scrittura più intima e  misteriosa, che riferisce un respiro  cosmico, di cui si sente quasi il soffio, come in questo   dialogo col Divino: - « Mio Dio dal passo certo / insegnami a baciare lacrime e fogliame» – in cui egli invoca il Dio maestro, affinché  gli insegni  a saper accettare il dolore e al tempo stesso la bellezza della vita, della natura… delle foglie dei campi e dei boschi che sono la  linfa della  sua sfera  vitale: “isola- interiore” e “isola-territorio”. Il paesaggio marino di Sutivan si presenta vitreo ed evanescente, boschi e foglie  sono una magia riflessa nel verde-azzurro del mare… e quando il tempo  s’incupisce,  o scende la sera, le foreste dei pini oscurano le ombre che fluttuano sull’acqua…e  il mare diventa subito inchiostro … in cui lo sguardo del poeta quasi  s’abbandona seguendo  lo  schizzo del pensiero che gli appare sull’acqua. Il mare diventa la  pagina cangiante, sulla quale il fogliame della scrittura si fa poesia. Il poeta, circondato da una natura così meravigliosa, invoca Dio, affinché  gli conceda la “grazia” della poesia, perché gli insegni appunto a “baciare” “…lacrime e fogliame,  a  dire” con la sua bocca quella poesia  che è vita e natura … E il poeta riesce a dirla  proprio baciando foglie di parole che  sparpaglia sulla carta, laddove egli ritrova la sua terra, il suo mare, il proprio  mondo che è quello stesso della poesia.
   Il tono poi, si fa via via più sottile, silente, quasi disperante…come in questi versi così toccanti che costituiscono la parte  finale di questa   preghiera - “e non lasciarlo affondare  /non lasciar affondare…”. In questo  dilemma umano, in cui ogni uomo si sente di affondare, l’unica cosa che salva il poeta è la Poesia stessa: “entrare nel mare e ricordarmi di una parola / che ho cercato per anni / per la gioia mettermi a nuotare.” E poi infine: “Ringraziare Dio/ della grazia”- in cui traspare nitida la consapevolezza della  poesia intesa come “grazia”, cioè come “riflesso del divino che in essa risplende” ed è proprio questa nitida  coscienza  che  fa scaturire il  ringraziamento verso Dio, perché come ci indica Arthur Rimbaud -  «Solo l’Amore divino conferisce le chiavi della conoscenza.» - .
   Nella Poesia di Dražen  Katunarić, sono evidenti le tracce di una ricerca di autenticità, che spesso si articola in gioco gioioso e al tempo stesso consapevole dell’impossibilità di raggiungere la Poesia  o di poterla trattenere nella sostanza di una parola. Il poeta ci dice che la si può sentire solo “ nel mutismo della fuga”, nella fugacità stessa del linguaggio poetico, poiché è parola che incanta, ma che non si fa ingabbiare, non si traduce in formula, tanto che lui stesso aggiunge: - “parola diletta che ti ha incantato / in un angolo misterioso/ se l’avessi almeno sulla punta della lingua/ ma io non ce l’ho / più. La poesia viene quasi percepita  come un’entità viva, capace di guizzare e poi di sfuggire,  - “tanto che io divento muto” - precisa  Dražen  Katunarić. La poesia infatti è proprio - “Parola senza musica/ musica senza parole / parola di silenzio / silenzio senza parole / e poi / niente, davvero / più / niente” - come scrive Edmond Jabès.
La poesia è quindi un essere multiforme e multi-prospettico che mai si rivela nella sua interezza,  poiché  essa si svela  nel  “movimento” stesso della creazione, che non ne permette la fissità,  perché  la lingua stessa della poesia è un organismo vivo, dotato di un suo proprio ritmo esistenziale. Essa è pertanto  erranza, movimento incessante che lascia al poeta solo un "berretto blu" da marinaio, che fa subito venire in mente  “le bateau ivre” di Arthur Rimbaud, e che simbolizza pertanto, l'unica identità possibile del poeta,  quella del  “viaggiatore errante”,   di colui cioè che non ha approdo né porto, e anziché trovarsi al largo, si ritrova nella  foresta della lingua, nel territorio dell’incertezza assoluta, in cui la poesia continuamente rigenera sé stessa, ma da cui non c’è ritorno, e da qui l’appello, il grido del poeta.

L’aria che ho inspirato, io la trasformo in grido, in appello di marinai smarriti che, invece d’essere al largo, hanno errato nell’incertezza della foresta. Solo il loro berretto blu ricorda loro, al crepuscolo, ciò che furono un tempo.

   Si tratta di un appello che nasce nel/dal deserto, come  insegna  Henri Maldiney,  dal “non-luogo” in cui  la poesia si  origina. Ecco allora che l’universo, gli animali, le piante, gli uomini, non sono altro che il deserto “ripopolato” dal  linguaggio universale, dalla lingua stessa del poeta, in cui la parola “lupo” rivela non solo il lupo, ma proprio il “monstrum”, l’evento,  ciò che si mostra ed è “inaudito”  e in quanto  tale, «…inscrive un mondo diverso» - come  afferma  Dražen  Katunarić - rappresenta cioè  un prodigio:   l’epifania  stessa del mondo.

Nelle pupille della bestia come del fuoco riverbera un lago strano. Dissociato, impossibile da legare, innocente e bestiale, esso non ha né sguardo, né pensiero. Si tratta quasi di  un deserto.
Di un vuoto inviolato, attutito, scorticato
Che grida il compimento come in un tempio…

Il lupo (il mostro, il terrore dell’ignoto, l’orrido, il male, la paura, ecc.)  qui incarna “la luce primordiale originale”, che ex-iste attraverso  lo sguardo del poeta, attraverso gli occhi del lupo che “vedono nel buio “il buio”:  la “notte del magma cosmico” in/da cui la luce del mondo si origina. Le pupille vedono nel deserto del nulla, in cui c’è solo il grido del poeta. L’ “appello” del poeta chiama sé stesso a sé, per “existere”, e chiama il  mondo stesso che pertanto si consustanzia,  “si mostra” -  appare. Ed ecco il prodigio, il monstrum, e  il veggente, il  marinaio errante su un’arca di salvezza,  che  dice il mondo”, lo proferisce,  lo porta avanti a sé,  chiamandolo a sé e “vedendolo”, in quel “vuotoche grida il compimento come in un tempio”





 Introduction de Comasia Aquaro         
                                                         

J’avais en effet, en toute sincérité d’esprit, 
pris l’engagement de le rendre 
à son état primitif de fils du soleil,
– et nous errions, nourris du vin des cavernes 
et du biscuit de la route,

moi pressé de trouver le lieu et la formule 

Arthur Rimbaud
                                          
                                                                



Mon ami écrivain et poète Dražen Katunarić m’offrit, il y a quelques années de cela, un recueil de ses poésies intitulé Ciel/Terre : une version française traduite du croate par Borka Legras,VandaMikšic e Fernand Cambon, sous la supervision de Gérard Adam et  publiée en Belgique en 2008 par les éditions L’Arbre à Paroles. Après que je l’ai lu et traduit en italien, cet ouvrage est resté trop longtemps sur ma table de chevet, en attente d’être diffusé en Italie, de préférence dans une traduction qui se réfère au texte original en langue croate. Hélas, jusqu’à présent cela n’a pas été possible ! Je me limite donc à présenter ici quelquesunes des poésies tirées du livre en question, qui offre toutefois, de l’avis de l’auteur, une excellente traduction en langue française. Il est probable que les textes que je présente ici sont trop peu nombreux pour mettre en évidence la complexité du chromatisme poétique présent dans tout le recueil de Dražen Katunarić, chromatisme qui, je le suppose, caractérise l’ensemble de sa poésie.
Ciel/Terre présente de nombreux plans interprétatifs et divers registres d’une écriture dont les voix et les sonorités donnent vie à un langage limpide, à la fois très élaboré et tendu vers l’essentiel. Le poète taille et enchâsse avec précision, à l’intérieur du discours poétique, toutes les variables de l’âme humaine, jusqu’au jeu subtil de l’auto-ironie. Il soupèse, il délimite et il isole la parole jusqu’à la vider, aux fins de la rendre plus puissante : elle devient ainsi essence lumineuse d’où rayonnent de multiples directions de sens. La réflexion profonde et sensible du poète sur le monde et l’humanité se fait sentir à travers une oscillation marquée du rythme : des sons aigus ou graves en scandent les traits les plus dramatiques, et ceux-ci tout à coup s’ouvrent tout grands en failles de silence qui en scellent le mystère, d’où, avec surprise presque, arrive à l’oreille du coeur la vérité de la poésie. Ciel et terre, bien qu’ayant une figuration distincte à l’intérieur de l’espace poétique,  constituent ensemble une seule et même forme dont le rythme a une seule et même respiration : c’est là une fusion alchimique qui mêle aussi bien les sujets naturels (les animaux, les bois, la mer, la terre, les pierres, etc.) que les autres, plus représentatifs du sacré (le cosmos, le ciel, Dieu, la nature dans son intégralité, ainsi que la Poésie elle-même). Cette osmose entre Terre et Ciel – univers intérieur et univers extérieur, transcendant et immanent – donne vie à une poésie kaléidoscopique, à travers laquelle la nature elle-même révèle la vérité de l’existence, déchirant le voile du Divin par lequel elle est, elle aussi, recouverte. Tout le réel s’en trouve ainsi transfiguré, sans jamais être faux ni coupé de ses liens avec l’histoire. La terre n’est pas la toile de fond ou le cadre du discours ; la terre, dans tout ce qu’elle a de concret, se fait elle même poésie. Le regard du poète s’adresse en effet aux “muets insulaires / aux pieds déchirés / les habitants des roches” et il en scrute les visages, les “fronts avares burinés” par un vécu qui reste gravé sur leurs “visages ciselés” dont la dureté manifeste la force, la ténacité et la résistance de ces gens, meurtris par le difficile parcours historique qu’ils ont
dû affronter. Les pierres mêmes de ses plages stigmatisent l’origine dure et âpre de ce territoire, les aspérités et les obstacles de son histoire. C’est un chant qui vient des “froides profondeurs” dans lesquelles s’enfonce la terre du poète et où lui-même est immergé, pour sonder et chercher à capter le secret de la poésie, sa racine de vérité engloutie qui, lorsqu’elle émerge, dénote une nature terrestre différente, avec des strates profondes et des fondations occultes. C’est une recherche intense et tenace que celle de Dražen Katunarić, qui souvent porte à la lumière des fragments de sagesse, comme par exemple ces lignes de la partie intitulée “Stigma”:
Beaucoup sont prêts à monter au piédestal, mais sois à la hauteur de la base d’une
montagne qui bougera sans que personne ne s’en aperçoive
En suivant le regard du poète, entièrement tourné vers la Terre, la mer, les hommes, les animaux, le ciel et toute la nature, on peut déchiffrer la trace d’une écriture plus intime et mystérieuse, qui transmet une respiration cosmique, dont on sent presque le souffle, comme dans ce dialogue avec le Divin – “Mon Dieu au pas assuré / apprends-moi à baiser / larmes et feuillages…” – où il évoque le Dieu maître afin qu’il lui enseigne à accepter la douleur et qu’en même temps il lui apprenne la beauté de la vie, de la nature… des feuilles, des champs et des bois, qui sont la lymphe de sa sphère vitale : “île-intérieure” et “île-territoire”. Le paysage marin de Sutivan se présente vitreux et évanescent, les bois et les feuilles sont une magie reflétée dans le bleu-vert de la mer… et quand le temps s’obscurcit ou que le soir descend, les forêts de pins masquent les ombres flottant sur l’eau… et la mer soudain se fait encre… où
s’abandonne presque le regard du poète, en suivant les jets de sa pensée qui lui apparaissent sur l’eau. La mer devient la page changeante sur laquelle le feuillage de l’écriture se fait poésie. Le poète, entouré d’une nature aussi merveilleuse, invoque Dieu, afin qu’il lui concède la “grâce” de la poésie, pour qu’il lui apprenne, justement, à “baiser / larmes et feuillages…”, à “dire” avec sa bouche cette poésie qui est vie et nature… Et le poète réussit à la dire précisément en baisant les feuillages de mots qu’il éparpille sur le papier, là où il retrouve sa terre, sa mer, son propre monde qui est celui-là même de la poésie.
Le ton se fait ensuite de plus en plus subtil, silencieux, presque désespéré… comme dans ces vers si touchants qui constituent la partie finale de cette prière : “Et ne le laisse pas couler /ne laisse pas coule”. Dans ce dilemme humain, où chaque homme se sent couler, la seule chose qui sauve le poète c’est la Poésie elle-même : “entrer dans la mer et me souvenir d’une parole / que j’ai cherchée des années durant / de bonheur me mettre à nager”. Et puis, enfin : “remercier Dieu de la grâce”, où transparaît, limpide, la conscience de la poésie entendue comme “grâce”, c’est-à-dire comme “reflet du divin qui en elle resplendit”, et c’est bien cette conscience limpide qui fait jaillir le remerciement envers Dieu car, ainsi que le déclare Arthur Rimbaud, “l'amour divin seul octroie les clefs de la science”. Dans la poésie de Dražen Katunarić, sont évidentes les traces d’une recherche d’authenticité qui souvent s’articule en jeu joyeux et, dans le même instant, sait l’impossibilité d’atteindre la Poésie ou de pouvoir la retenir dans la substance d’un mot. Le poète nous dit qu’on ne peut la sentir que “dans le mutisme de la fuite”, dans la fugacité même du langage poétique, puisqu’elle est parole qui enchante mais qui ne se laisse pas mettre en cage, qui ne se traduit pas en formule, si bien que lui-même ajoute : “parole chérie qui t’a ravie / dans un coin mystérieux / si je l’avais au moins sur le bout de la langue / mais je ne l’ai plus”. La poésie est presque perçue comme une entité vivante, capable de frémir et puis s’enfuir ; c’est “ainsi que je devins muet”, précise Dražen Katunarić. La poésie, en effet, est bien “Une parole sans musique / Une musique sans paroles / Une parole de silence / Un silence sans parole / Et puis / rien,
vraiment / plus / rien”, comme l’écrit Edmond Jabès. La poésie est donc un être multiforme et aux multiples perspectives, qui ne se révèle jamais dans son intégralité puisqu’elle se dévoile dans le mouvement même de la création, qui ne lui consent pas de fixité car la langue de la poésie est un organisme vivant, doté de son propre rythme existentiel. C’est pourquoi elle est errance, mouvement incessant ne laissant au poète qu’un « béret bleu » de marin, qui immédiatement nous renvoie au « bateau ivre » d’Arthur Rimbaud, symbolisant ainsi la seule identité possible du poète, celle du voyageur errant : il n’a ni ancrage ni port mais au lieu de voguer au large, il se retrouve dans la forêt de la langue, dans le territoire de l’incertitude absolue, où sans cesse la poésie se régénère elle-même mais duquel il n’y a pas de retour possible – d’où l’appel, le cri du poète.
L’air que j’ai inspiré, je le transforme en cri, en appel de marins égarés qui, au lieu
d’être au large, ont erré dans l’incertitude de la forêt. Seul leur béret bleu rappelle,
au crépuscule, ce qu’ils furent autrefois.
C’est un appel qui naît dans/du désert, comme l’enseigne Henri Maldiney, du “non-lieu” où la poésie prend origine. Voici alors que l’univers, que les animaux, les plantes, les hommes ne sont rien d’autre que le désert “repeuplé” par le langage universel, par la langue même du poète, dans laquelle le mot “loup” ne révèle pas seulement le loup mais bien le “monstrum”, l’événement, ce qui se montre et qui est inouï et, de ce fait, “inscrit un monde différent” – comme l’écrit Dražen Katunarić – et représente donc un prodige : l’épiphanie même du monde.
Dans les prunelles de la bête comme du fou chatoie un lac étrange. Dissocié, impossible à lier, innocent et bestial, il n'a ni regard, ni pensée. Il s'agit presque d'un désert. D'un vide inviolé, assourdi, écorché clamant l'accomplissement comme dans un temple.
Le loup (le monstre, la terreur de l’inconnu, l’horreur, le mal, la peur, etc.) incarne ici “la lumière primordiale originelle”, qui existe à travers le regard du poète, à travers les yeux dun loup qui “voient” dans le noir, dans la “nuit du magma cosmique” où/d’où la lumière du monde prend origine. Les pupilles voient dans le désert du néant, où il n’y a que le cri du poète. C’est lui-même que le poète appelle ainsi à soi, pour “exister”, et c’est aussi le monde qu’il appelle, le monde qui, par consubstantiation, “se montre”, apparaît. Et voilà le prodige, le monstrum, et le voyant, le marin errant sur une arche de salut, qui “dit le monde”, le profère, le porte au-devant de lui, en l’appelant à lui et “en le voyant”, dans ce “vide… clamant l'accomplissement comme dans un temple”.
      
                            Comasia Aquaro
Traduit de l'italien par Pascale Clément-Delteil
                                                                                                   

    Dražen Katunarić è nato a Zagabria, in Croazia, nel 1954, dopo gli studi secondari, si è iscritto all’Università di Strasburgo dove ha completato gli studi superiori di filosofia con una tesi su Dostoїevski e la filosofia del sotterraneo. Bibliotecario, poi editore,  sarà successivamente redattore della prestigiosa rivista  La Lettera Internazionale e della rivista anglofona Most/The Bridge. In seguito redattore capo della versione croata della prestigiosa rivista Il messaggero Europeo. Poeta riconosciuto di fama internazionale, ha pubblicato una ventina di libri di poesie e numerosi saggi. Tradotto in più di dieci lingue, ha ricevuto numerosi  riconoscimenti importanti  tra cui  Le prix du Cercle européen  nel 1999.



 

Glass sounds [2014]


           Gianna Grassi, Glass sounds (2014)






                         CIELO/TERRA  
                                           
                                 Poesia 
                                        
                        Dražen Katunarić                               

                                              

Testi   scelti e tradotti da Comasia Aquaro dal libro:
Dražen Katunarić, Ciel/Terre, Les éditions de L’ARBRE À PAROLES, Amay 2008


(Alcuni testi tratti da  BESTIARIO”)

LUPO: PAROLA IMPRONUNCIATA.

TUTTO CIO’ CHE IO VEDO nel mondo  non è subito una parola. E prima di diventare una parola, il lupo era un fuori-legge, uno scorticatore. Da lì il mio turbamento. Molto giovane mi si faceva spaventare con l’incontro del lupo. Oggi che l’ho incontrato, ho anche dimenticato come si chiama: lupo. Oppure se avessi voluto pronunciare questa parola non sarebbe stato che per me stesso. Se mi divora, che io faccia conoscenza con l’omicida. L’agitazione cresce non appena si avvicina. Le sillabe si scompigliano, cercano di troncarsi l’un l’altra, si tengono per la coda, poi balzano alla gola, tutto allora si mette a girare nel cervello ed è a vuoto.
Lo confesso, non posso trovare riposo sotto lo sguardo del lupo,  le fauci di fronte a me si contraggono. I denti scintillano, cercano in me una via d’uscita alla loro brama. Come sfuggire alla proporzione tra selvatico, peli, gioco di muscoli, probabilmente sanguinanti e queste parole pronunciate nel mio ventre? Tuttavia questa è l’unica cosa che  abbiamo in comune, il nostro interno, e l’incantamento allorquando è riempito, che scompare di seguito, come nostra madre.
In questo istante non balbetto, dentro di me dico qualcosa sulla natura, e sono tormentato poiché anche al lupo devo dire qualcosa. Ma i suoi occhi sprizzano già, togliendo senso alle mie parole. Lo scricchiolio dei suoi denti che si chiudono sul vuoto m’interrompe nel mezzo  della frase, abitandola con una sorta di beanza tra le parole, come se tutto al presente dovesse ricominciare nella muta pulsazione dell’oscurità.

INTRODUZIONE AL LUPO.

Schianto, colpo della natura, io ho voluto rubare il suo mistero.  Per me non era che un’aria praticabile, una traccia per il passaggio dei miei piedi. E tutto ciò non avviene che nella caduta, tanto che io fui pronto a ritornarmene verso la natura, una volta rafforzate gambe e braccia nella nebbia.
Tutto è cambiato improvvisamente, una volta per tutte: il silenzio ha regnato, selvaggio, minaccioso. Un lenzuolo bianco nel silenzio dei rami, tutto era solenne.
A qualche metro davanti a me spunta il lupo. E’ sceso sulla mia pista, e si è diretto verso la vallata. Ho visto la bestia affondare incurante le sue zampe nella neve e lasciarvi la sua immagine. Ad essa tornava il biancore, ogni albero, la corteccia e il silenzio.

LA NATURA
Ho sollevato la grande polvere delle montagne! Corso e urlato: Ho incontrato il lupo, ho incontrato il lupo!
Non ho dissimulato la mia natura, non più della bestia all’istante.
Il verde nella foresta. Nella neve. Il resinoso ha scrollato la sua polvere.

LA COMUNIONE DEL LUPO

ABBA-PADRE, adottami. Ho incontrato il lupo nella foresta. Mi sento come una pecora dall’anima abbattuta. Colui che trionferà tra le bestie minori, quando  hanno il muso girato verso la luna. Verso di te. Esso mi brama, più di una chimera, più di qualunque donna. Esso è il male che vuole divorare. Si drizza davanti a me con le zampe rigide, il pelo  rizzato, gli occhi iniettati di odio, le mascelle aperte, che mostrano le sue zanne schiumanti di saliva. Tutto  è perfido, orrido, orribilmente malvagio. Padre, il lupo mi trasfigura. Se tu puoi qualunque cosa, donagli la comunione. Avvicinati a lui, digli una parola, ma a voce bassa, che sia generoso, divoralo di bontà. Convertilo in muta e indicibile adorazione.

LUI SOLO

L’ANIMALE inscrive un mondo diverso.
Nelle pupille della bestia come del fuoco riverbera un lago strano. Dissociato, impossibile da legare, innocente e bestiale, esso non ha né sguardo, né pensiero. Si tratta quasi di  un deserto.
Di un vuoto inviolato, attutito, scorticato
che grida il compimento come in un tempio, o di una navigazione verso un’isola immaginaria sulla strada che porta dalla sommità dei cactus all’alta pianura, dalla macchia al boschetto o alla radura.
Incontrare un fuoco non è lo stesso che incontrare un lupo,
né una folle, una lupa,
poiché occorre a volte incontrare essa ed esso, venendo da destra o da diritto, diritto nelle pupille, riempire questo vuoto che ci tormenta senza tregua, lui solo.

DAVANTI AL LUPO

Ormai che niente m’importuna, dato che sulla mia faccia io porto i morsi del lupo
Ora solamente m’accorgo di quanto potevo essere felice prima che la bestia non fosse scattata.
Potevo piangere sulle tombe degli altri,
saltare fino al cielo.
Potevo cacciare le farfalle violette giganti.
Potevo enumerare tutto.
Vivere era facile prima del lupo.

VIVALDI
(Le quattro stagioni)

I cacciatori dai cappelli a piume
non sanno riconoscere gli animali
nella foresta
sono sempre pieni di stupore davanti
ad essi
come se mai prima d’ora
oh, mai prima d’ora
li avessero abbattuti.

ETA’

Età è un piccolo animale fossile che vive dentro
l’oscurità di una brocca, sospeso a una corda
come un secchio d’acqua, con la pelle,  
la forma,
rassomigliante a volte a un coccodrillo, alla lucertola e
alla tartaruga. Esso pende immobile. Il nutrimento e
la luce gli sono nocivi, egli gusta una razione
irrisoria a novembre e dicembre, e questa è per
tutto l’anno. Non si espone al mondo se non quando
la gente lo scopre nella brocca, sollevando il
coperchio per puro caso e guardando il fondo.
Su lui stesso, lui ne sa più di tutti.
A nessuna creatura e ancor meno all’uomo
verrebbe in mente di turbare l’armonia nel
fondo stretto, di cacciare l’età dalla sua brocca.
Invecchiando egli apprezza sempre meno
che i curiosi lo scoprano, e non appena  lui sente
la luce sulla sua pelle rugosa, Età si rizza
nei pozzi a secco: “Brava gente, non issatemi più
con la corda! In basso, io non ci sono!
Resta ancora qualche parola, intatta!”
Ma loro, indiscreti, lo issano lo stesso poiché
Età viene con gli anni. Giocando con le parole,
si solletica loro il pensiero e vedrebbero qualcosa
d’irreale, di rugoso, di indigente e di triste,
come se loro facessero male all’animale. Ed Età alla
luce è la stessa età nell’oscurità. La
stessa. Solo le parole sono rimaste sul fondo, sacrosante.



(Alcuni testi tratti da “ISOLOMANIA”)


SEMPRE PIU’ A LUNGO RESTO NEL MARE.

Sempre più a lungo resto  nel mare.
Nell’innocenza.
Fa caldo fino al tramonto del sole, quando
l’occidente
s’imporpora e le rondini diventano
folli di gioia: esse
superano i cieli. Resto sempre più
a lungo nel mare, a gioire
di ogni onda, dolce come zucchine
a rotelle,
all’olio d’oliva, infarcite di prezzemolo, di aglio e di
basilico. Resto sempre più a lungo
nel mare;
a rallegrarmi del colpo di remo schiumante e della
sua scia,
troverò- io coi miei propri occhi un souvenir
sulla distesa
di sabbia, tra le erbe del fondale: in ogni
ombra
c’è qualcosa del sedimento di un sogno. Io
resto
sempre più a lungo nel mare, guardando
le bagnanti
violette sugli scogli, i gabbiani al fronte
obliquo,
un pesce di traverso nel becco. Io resto sempre  più
a lungo nel mare, alla ricerca
di quiete, nelle mie orecchie risuona l’eco dei
giorni e
delle grida gioiose: ascolto l’uomo di casa mia!
Sempre più a lungo, fino a notte, io
resto nel mare.



SALMO SULL’INNUMERABILE

Su un’isola ho visto trecento capre
e trenta caproni,
una moltitudine di pecore,
quattromila corna,
di centinaia di arieti impetuosi.
Ottanta asine e dieci asini tristi,
settecentotrentacinque cavalli,
due al trotto, dei loro muli
duecentoquarantasei.
Delle greggi, delle greggi innumerabili.
Ma nessun pastore.
Con un asino mi trovai faccia a faccia,
l’un l’altro confrontati in una stalla oscura.
Dopo questa visione, mi misi a cantare:

guardo la tua isola, Dio sconosciuto,
e m’inginocchio
davanti all’opera degli occhi;
guardo la terra rossa,
opera dei tuoi piedi feriti,
guardo i tuoi alberi vigorosi,
opera dei tuoi pugni e delle tue unghia.
Di niente devi avere vergogna.
Né del cimitero, della frana, dello scheletro,
delle pigne inutili.
Né del fico sterile nella pietraglia.
Né degli storpi fatti re.
Né delle ossa che tremano disperse
sotto terra e  cantano  le lodi del Signore.
Né degli asini che si guardano occhi negli occhi
soli con gli uomini, soli con te.


UNA LETTERA DALL’ISOLA
Da nessuna parte nessuno.
Il mare danza intorno all’isola
e diluisce la sua solitudine
(con la sua schiuma leggera negli scogli).

Se passa un asino nella giornata,
va bene!

Se passa un paesano
a cavalcioni
va bene lo stesso!

Se non passa nessun asino!
Se niente passa!

Poco importa chi viene da me.
Il vento. La luna. Il tagliapietre.
Il provveditore.

Che sia un uomo o un pesce,
un riflesso o un soffio,
un colore o un carrube,
una parola secca o grossolana,
è legale!

Che sia un’onda o una risata nella vigna,
l’oscurità o un serpente nella bora,
che sia una cicala nel bosco
o una voce bassa, più bassa, più bassa ancora,
è uguale!

La solitudine!

E ancora la solitudine!

                 

                 ISOLOMANIA

Isole fredde
e muti isolani
dai piedi lacerati
gli abitanti delle rocce
nella roccia ritagliati
sognano di calpestare il fango
di prostrarsi davanti a una statua d’argilla
di vangare senza stupore,
senza gettare pietre in aria

circondate da fredde profondità
tagliate dall’origine della pietra
dai silenzi del largo
sparse in frammenti
di resina indurita
le isole s’impauriscono
evitano uomini e reti
restie all’amore.
Fronti avare segnate,
visi scolpiti, scarpate dure
avarizie che noi contorniamo
con un misterioso uncino.
Polveri di grani dispersi dai monti calvi
larve di abissi blu
si sono strappati gli occhi e le orecchie
vogano al nome delle erbe e delle seppie stordite
il mare batte loro una guancia
il sole colpisce l’altra
esse si presentano come visi.
Giacciono instancabilmente al di là del mare
non s’interpellano
desiderano essere infilate intorno al collo
punte in collier di zampe e di pinze di granchi.
Al mare e alla divinità,
a quella da cui loro hanno disertato
non ci tengono a tornare
dalla balia dura e inaridita.

Come sono cadute restano.
Vite a brandelli
pacifiche e mute nella solitudine
distendono l’ombra del giorno
voltano  i nostri occhi verso l’alto
voce raggelata, ripida
arrochita per l’eternità.


                 
                  SALMO DELLA MARCIA SULL’ACQUA

I tuoi piedi sono scivolati sulle anse dei torrenti
dolci e leggeri
camminando tra le creste marine
tu non hai barcollato alla minima onda
le profondità dei fondali non ti hanno inghiottito
né le onde ti hanno ricoperto con la loro ondata
il mare spaccato invece delle piante dei tuoi piedi;
oh! come questo era coraggioso e tenero;
mio Dio dal passo certo
insegnami a baciare lacrime e fogliame
il corpo viola e aereo
tu hai preservato il mio piede dalla caduta
adesso posalo sull’onda
e non lasciarlo affondare
                  non lasciar affondare.     



E’  COSI’ CHE IO DIVENTO MUTO.                         
                                                                         La mia gola è secca come una tegola
                                                                         e la mia lingua s’incolla al mio,  palazzo
                                                                         (Il Salmista)
                                                                                                
                                                                                       
Entrare nel mare e ricordarmi di una parola
che ho cercato per anni
per la gioia mettermi a nuotare
coi gomiti fare schiuma
con le gambe cacciare dei gridi
abbracciarla, giocare con lei come un delfino
ridere come un delfino
gettarla sulla riva
e di nuovo ridere
come non mai

ripeterla a voce alta
mille volte
ringraziare Dio
della grazia
per la quale in un istante
guarì la mia anima.
In un istante.

Uscire poi sullo scoglio
il corpo grondante
ancora bagnato, ancora bagnato
dimenticarla allora,
nello stesso  istante.
Il cuore batte follemente
il mare e la terra si scansano
nel mutismo della fuga
parola diletta che ti ha incantato
in un angolo misterioso
se l’avessi almeno sulla punta della lingua
ma io non ce l’ho
più.
Ed ho pensato di tornare nel mare
e partii alla ricerca nella schiuma
spudorata del mare
e con le onde mi riacchiapparono altre
parole più profonde
tristi e risibili
strane e inutili.
Questa non è la mia parola alata,
dolce al palato e al sogno.
Il mare la nasconde forse nelle alghe
la sabbia la nasconde all’istante
dove il pesce la inghiotte con voluttà
come Jonas.

Le onde del desiderio hanno ostacolato il mio soffio
il freddo l’ha inaridito e appassito.
Tanto che io divento muto.




( Testi tratti da: “ STIGMA”)


La via è così bella sotto la sopraccoperta della copertura. Con un supporto solido per la sofferenza alla quale tu non vuoi rinunciare, neanche a prezzo di sacrificio. Molti sono pronti a salire sul piedistallo, ma sia all’altezza della base di una montagna che si sposterà senza che nessuno se ne accorga.

                                                                      ******

L’aria che ho inspirato, io la trasformo in grido, in appello di marinai smarriti che, invece d’essere al largo, hanno errato nell’incertezza della foresta. Solo il loro berretto blu ricorda loro, al crepuscolo, ciò che furono un tempo.
                              
                                                                      ******

POESIA EFFIMERA

Un solitario ammucchia le foglie nelle sue braccia
e le porta attraverso il parco
Ha stretto forte le foglie affinché
non gli sfuggano via
nel parco deserto
per questo  ci sono parecchie foglie invisibili, ingiallite
che il vento trascina sulle sue spalle
per questo ci sono tre o quattro foglie
che il vento senza gioia arraffa  sulle spalle.
Tu non puoi, oh solitario,
stringere tra le tue braccia tutti gli istanti commoventi,
non lo puoi, oh maestro.
Ogni foglia ha già fatto il giro del fuoco
e dal palmo se n’ è fuggita  
nel vento.





ADESSO SO PERCHE’
                                                   

                                                                                                           A Baudelaire

Non ho mai parlato dal fondo del cuore, cantato di un’anima un po’ lieta. Non facevo che dormire per giorni e giorni, lunghi e corti. I miei occhi sono incrostati come le finestre della vecchia casa. Da cinque anni non l’ho aperta. Ho lasciato accumulare la polvere, le ragnatele, i millepiedi, ho tollerato che delle terze persone mi rimproverassero di essere un debosciato necrofilo. Sul letto, i corpi  intorpiditi  dei miei amori, presi da concupiscenza. Destino assopito in un istante. Lungo i muri delle formiche s’arrampicano e scendono in nere processioni funebri, salutando al passaggio. Vetri insudiciati da una pioggia di bile, insetti raggomitolati sopra le cornici, frammenti di occhi che spiano nell’oscurità del soffitto, aumentando la febbre. E ben altre cose ancora, tele di ragni. Io sloggio, sloggio. Occorre sloggiare da qui.




(Testo tratto da “ PROVINCIA DESERTA”)

DELLA TERRA

GLI ARABI dall’inverno cominciano ad ammucchiare le valute forti per i loro viaggi alla Mecca, là dove brilla la pietra nera.
Questo non è per niente disprezzabile. Anch’io li imito, e chiudo dell’argento in un posto sicuro, per visitare i luoghi santi che meritano il massimo del mio stupore. Quando arrivo laggiù resto accovacciato ore e ore all’ombra di un fico, coperto da un cappuccio, e a volte mi stendo per terra a caccia di una voce gutturale, prossima o lontana. Sono paziente per natura e soprattutto quando attendo l’Ignoto. Passa un lungo tempo, e se non la capto in me, mi alzo, e lentamente cammino fino all’agenzia più vicina, in cerca di un nuovo biglietto per un altro tempio. Con me porto sempre un po’ di cenere fluttuante.