CIEL/TERRE di Dražen Katunarić
Introduzione di
Comasia Aquaro
Avevo infatti, in piena
sincerità di spirito,
assunto l'impegno di restituirlo
al suo stato primitivo di
figlio del Sole, -
ed erravamo, nutriti
del vino delle caverne
e del biscotto della strada,
io
ansioso di trovare il luogo e la formula.
(Arthur Rimbaud)
Il mio amico scrittore e poeta Dražen Katunarić, mi donò qualche anno fa un suo libro di poesie intitolato Ciel/Terre: una versione francese tradotta dal croato, da Borka Legras, Vanda Mikšic e Fernand Cambon con la supervisione di Gérard Adam e pubblicata in Belgio nel 2008 dalle edizioni L’ARBRE A’ PAROLES. Dopo averlo letto e tradotto in italiano, è rimasto troppo a lungo sul mio tavolino in attesa di essere reso noto in Italia, preferibilmente con una traduzione che si riferisse al testo originale in lingua croata. Ahimè, finora non è stato possibile! Mi limito, pertanto, a presentare qui qualche poesia tratta dal libro in questione che offre comunque, secondo il parere dell’autore, un’ottima traduzione in lingua francese. I pochi testi che qui presento, probabilmente, non saranno sufficienti ad evidenziare la complessità del cromatismo poetico presente nell’intera raccolta di Dražen Katunarić e che, suppongo, caratterizzi grosso modo, tutta quanta la sua poesia.
CIEL/ TERRE presenta
molti piani di interpretazione e vari registri di scrittura le cui voci e
sonorità danno vita a un linguaggio schietto, al tempo stesso
accurato e teso all’essenziale. Il poeta intaglia e incastona con
precisione, all’interno del discorso
poetico, tutte le variabili dell’animo umano, fino al sottile gioco dell’autoironia.
Pondera, delimita e isola la parola fino a svuotarla, al fine di potenziarla: essa diviene pertanto, lucida essenza dalla
quale si irradiano molteplici direzioni
di senso.
La
riflessione profonda e sofferta del poeta sul mondo e l’umanità, si fa sentire attraverso un’oscillazione marcata del ritmo: suoni
acuti o gravi ne scandiscono i tratti più drammatici, i quali si aprono di colpo in spaccature di silenzio che ne suggellano
il mistero, da cui quasi a sorpresa, arriva
all’orecchio del cuore la verità della poesia.
Cielo e terra, pur
avendo una distinta figurazione
all’interno dello spazio poetico, costituiscono insieme un’unica forma il cui
ritmo ha un unico respiro: si tratta di
una fusione alchemica nella quale sono coinvolti sia soggetti
naturali, (gli animali, i boschi, il mare, la terra, le pietre, ecc.) che altri più rappresentativi del
sacro (il cosmo, il cielo, Dio, la natura nella sua interezza, nonché la Poesia stessa). Questa osmosi
tra Terra e
Cielo - universo interiore e universo esteriore, trascendente e immanente - dà vita
a una poesia caleidoscopica attraverso cui la natura stessa svela la verità dell’esistenza, lacerando il velo
sacro del Divino, nel quale essa stessa
è avvolta. Tutto il reale pertanto, risulta trasfigurato, ma mai
falso o stranito rispetto alla storia.
La terra stessa, non è lo sfondo o la cornice del discorso, ma essa
stessa nella sua concretezza si fa poesia: lo sguardo del poeta è rivolto, infatti, ai “muti isolani / dai piedi lacerati / gli
abitanti delle rocce”, e ne scruta
i volti, le “… fronti avare segnate” da un vissuto che resta inciso sui
loro “ visi scolpiti”, la cui durezza indica la
forza, la tenacia e la
resistenza di questa gente, che ha dovuto
affrontare un percorso storico arduo e lacerante. Le pietre stesse delle sue
spiagge, stigmatizzano l’origine dura e aspra
di questo territorio, le asperità e gli ostacoli della sua storia. E’ un
canto che proviene dalle “fredde profondità”, in cui è inabissata la terra
del poeta e nelle quali lui stesso è immerso, per
scandagliare e cercare di
captare il segreto della poesia: la sua radice di verità sommersa che,
quando emerge, denota una terrestrità
differente, con strati profondi e occulte fondamenta. E’ una ricerca intensa e tenace, quella di Dražen Katunarić, che porta spesso alla luce frammenti di saggezza, come ad esempio, in
queste righe tratte dalla parte intitolata “Stigma”:
« Molti sono pronti a salire sul
piedistallo, ma che sia all’altezza
della base di una montagna che si sposterà senza che nessuno se ne accorga.»
Seguendo lo sguardo del
poeta, interamente rivolto alla Terra, al mare, agli uomini, agli animali, al
cielo e alla Natura tutta, si può decifrare la scia di una scrittura più intima
e misteriosa, che riferisce un
respiro cosmico, di cui si sente quasi
il soffio, come in questo dialogo col
Divino: - « Mio Dio dal passo certo / insegnami a baciare lacrime e fogliame»
– in cui egli invoca il Dio maestro, affinché
gli insegni a saper accettare il
dolore e al tempo stesso la bellezza della vita, della natura… delle foglie dei
campi e dei boschi che sono la linfa della
sua sfera vitale: “isola- interiore” e “isola-territorio”.
Il paesaggio marino di Sutivan si presenta vitreo ed evanescente, boschi e foglie sono una magia riflessa nel verde-azzurro del
mare… e quando il tempo s’incupisce, o scende la sera, le foreste dei pini
oscurano le ombre che fluttuano sull’acqua…e
il mare diventa subito inchiostro … in cui lo sguardo del poeta quasi s’abbandona seguendo lo
schizzo del pensiero che gli appare sull’acqua. Il mare diventa la pagina cangiante, sulla quale il fogliame
della scrittura si fa poesia. Il poeta, circondato da una natura così
meravigliosa, invoca Dio, affinché gli
conceda la “grazia” della poesia, perché gli insegni appunto a “baciare”
“…lacrime e fogliame, a “dire” con la sua bocca quella
poesia che è vita e natura … E il poeta riesce
a dirla proprio baciando foglie di
parole che sparpaglia sulla carta,
laddove egli ritrova la sua terra, il suo mare, il proprio mondo che è quello stesso della poesia.
Il tono poi, si fa via via più
sottile, silente, quasi disperante…come in questi versi così toccanti che
costituiscono la parte finale di
questa preghiera - “e non lasciarlo
affondare /non lasciar affondare…”.
In questo dilemma umano, in cui ogni
uomo si sente di affondare, l’unica cosa che salva il poeta è la Poesia stessa: “entrare
nel mare e ricordarmi di una parola / che ho cercato per anni / per la gioia
mettermi a nuotare.” E poi infine: “Ringraziare Dio/ della grazia”- in cui traspare nitida la consapevolezza della
poesia intesa come “grazia”, cioè come “riflesso
del divino che in essa risplende” ed è proprio questa nitida coscienza
che fa scaturire il ringraziamento verso Dio, perché come ci indica
Arthur Rimbaud - «Solo l’Amore divino conferisce le chiavi
della conoscenza.» - .
Nella Poesia di Dražen Katunarić, sono evidenti le tracce di una
ricerca di autenticità, che spesso si articola in gioco gioioso e al tempo
stesso consapevole dell’impossibilità di raggiungere la Poesia o di poterla trattenere nella sostanza di una
parola. Il poeta ci dice che la si può sentire solo “ nel mutismo della
fuga”, nella fugacità stessa del linguaggio poetico, poiché è parola che
incanta, ma che non si fa ingabbiare, non si traduce in formula, tanto che lui
stesso aggiunge: - “parola diletta che ti ha incantato / in un angolo
misterioso/ se l’avessi almeno sulla punta della lingua/ ma io non ce l’ho /
più. La poesia viene quasi percepita
come un’entità viva, capace di guizzare e poi di sfuggire, - “tanto che io divento muto” - precisa Dražen
Katunarić. La poesia infatti è proprio - “Parola senza musica/ musica senza parole / parola di silenzio /
silenzio senza parole / e poi / niente, davvero / più / niente” - come
scrive Edmond Jabès.
La poesia è quindi un essere multiforme e multi-prospettico che mai si rivela
nella sua interezza, poiché essa si svela
nel “movimento” stesso della
creazione, che non ne permette la fissità,
perché la lingua stessa della
poesia è un organismo vivo, dotato di un suo proprio ritmo esistenziale. Essa è
pertanto erranza, movimento incessante
che lascia al poeta solo un "berretto blu" da marinaio,
che fa subito venire in mente “le bateau
ivre” di Arthur Rimbaud, e che
simbolizza pertanto, l'unica identità possibile del poeta, quella del
“viaggiatore errante”, di colui cioè
che non ha approdo né porto, e anziché trovarsi al largo, si ritrova nella foresta della lingua, nel territorio
dell’incertezza assoluta, in cui la poesia continuamente rigenera sé stessa, ma
da cui non c’è ritorno, e da qui l’appello, il grido del poeta.
L’aria che ho inspirato, io la trasformo in grido, in appello di marinai
smarriti che, invece d’essere al largo, hanno errato nell’incertezza della
foresta. Solo il loro berretto blu ricorda loro, al crepuscolo, ciò che furono
un tempo.
Si tratta di un appello che nasce
nel/dal deserto, come insegna Henri Maldiney, dal “non-luogo” in cui la poesia si
origina. Ecco allora che l’universo, gli animali, le piante, gli uomini,
non sono altro che il deserto “ripopolato” dal linguaggio universale, dalla lingua stessa del
poeta, in cui la parola “lupo” rivela
non solo il lupo, ma proprio il “monstrum”, l’evento, ciò che si mostra ed è “inaudito” e in quanto tale, «…inscrive
un mondo diverso» - come afferma Dražen
Katunarić - rappresenta cioè un
prodigio: l’epifania stessa del mondo.
Nelle pupille della bestia come del
fuoco riverbera un lago strano. Dissociato, impossibile da legare, innocente e
bestiale, esso non ha né sguardo, né pensiero. Si tratta quasi di un deserto.
Di un vuoto inviolato, attutito,
scorticato
Che grida il compimento come in un
tempio…
Il lupo (il mostro, il terrore dell’ignoto, l’orrido, il male, la paura,
ecc.) qui incarna “la luce primordiale
originale”, che ex-iste attraverso lo
sguardo del poeta, attraverso gli occhi del lupo che “vedono” nel buio “il buio”: la “notte del magma cosmico” in/da cui la luce del
mondo si origina. Le pupille vedono nel deserto del nulla, in cui c’è solo il
grido del poeta. L’ “appello” del poeta chiama sé stesso a sé, per “existere”,
e chiama il mondo stesso che pertanto si
consustanzia, “si mostra” - appare. Ed ecco il prodigio, il monstrum, e il veggente,
il marinaio errante su un’arca di
salvezza, che “dice
il mondo”, lo proferisce, lo porta avanti a sé, chiamandolo a sé e “vedendolo”, in quel “vuoto…che grida il compimento come in un tempio”.
Mon ami écrivain et poète Dražen Katunarić m’offrit, il y a quelques années de cela, un recueil de ses poésies intitulé Ciel/Terre : une version française traduite du croate par Borka Legras,VandaMikšic e Fernand Cambon, sous la supervision de Gérard Adam et publiée en Belgique en 2008 par les éditions L’Arbre à Paroles. Après que je l’ai lu et traduit en italien, cet ouvrage est resté trop longtemps sur ma table de chevet, en attente d’être diffusé en Italie, de préférence dans une traduction qui se réfère au texte original en langue croate. Hélas, jusqu’à présent cela n’a pas été possible ! Je me limite donc à présenter ici quelquesunes des poésies tirées du livre en question, qui offre toutefois, de l’avis de l’auteur, une excellente traduction en langue française. Il est probable que les textes que je présente ici sont trop peu nombreux pour mettre en évidence la complexité du chromatisme poétique présent dans tout le recueil de Dražen Katunarić, chromatisme qui, je le suppose, caractérise l’ensemble de sa poésie.
Introduction de Comasia Aquaro
J’avais en effet, en toute sincérité d’esprit,
pris l’engagement de le rendre
à son état primitif de fils du soleil,
– et nous errions, nourris du vin des cavernes
et du biscuit de la route,
moi pressé de trouver le lieu et la formule
Arthur Rimbaud
Mon ami écrivain et poète Dražen Katunarić m’offrit, il y a quelques années de cela, un recueil de ses poésies intitulé Ciel/Terre : une version française traduite du croate par Borka Legras,VandaMikšic e Fernand Cambon, sous la supervision de Gérard Adam et publiée en Belgique en 2008 par les éditions L’Arbre à Paroles. Après que je l’ai lu et traduit en italien, cet ouvrage est resté trop longtemps sur ma table de chevet, en attente d’être diffusé en Italie, de préférence dans une traduction qui se réfère au texte original en langue croate. Hélas, jusqu’à présent cela n’a pas été possible ! Je me limite donc à présenter ici quelquesunes des poésies tirées du livre en question, qui offre toutefois, de l’avis de l’auteur, une excellente traduction en langue française. Il est probable que les textes que je présente ici sont trop peu nombreux pour mettre en évidence la complexité du chromatisme poétique présent dans tout le recueil de Dražen Katunarić, chromatisme qui, je le suppose, caractérise l’ensemble de sa poésie.
Ciel/Terre présente de
nombreux plans interprétatifs et divers registres d’une écriture dont les voix
et les sonorités donnent vie à un langage limpide, à la fois très élaboré et tendu
vers l’essentiel. Le poète taille et enchâsse avec précision, à l’intérieur du
discours poétique, toutes les variables de l’âme humaine, jusqu’au jeu subtil
de l’auto-ironie. Il soupèse, il délimite et il isole la parole jusqu’à la
vider, aux fins de la rendre plus puissante : elle devient ainsi essence
lumineuse d’où rayonnent de multiples directions de sens. La réflexion profonde
et sensible du poète sur le monde et l’humanité se fait sentir à travers une
oscillation marquée du rythme : des sons aigus ou graves en scandent les traits
les plus dramatiques, et ceux-ci tout à coup s’ouvrent tout grands en failles
de silence qui en scellent le mystère, d’où, avec surprise presque, arrive à
l’oreille du coeur la vérité de la poésie. Ciel et terre, bien qu’ayant une
figuration distincte à l’intérieur de l’espace poétique, constituent ensemble une seule et même forme
dont le rythme a une seule et même respiration : c’est là une fusion alchimique
qui mêle aussi bien les sujets naturels (les animaux, les bois, la mer, la terre,
les pierres, etc.) que les autres, plus représentatifs du sacré (le cosmos, le
ciel,
Dieu,
la nature dans son intégralité, ainsi que la Poésie elle-même). Cette osmose
entre Terre et
Ciel
– univers intérieur et univers extérieur, transcendant et immanent – donne vie
à une poésie
kaléidoscopique,
à travers laquelle la nature elle-même révèle la vérité de l’existence,
déchirant
le
voile du Divin par lequel elle est, elle aussi, recouverte. Tout le réel s’en trouve ainsi transfiguré, sans
jamais être faux ni coupé de ses liens avec l’histoire. La terre n’est
pas la toile de fond ou le cadre du discours ; la terre, dans tout ce qu’elle a
de concret, se fait elle même poésie. Le regard du poète s’adresse en effet aux
“muets insulaires / aux pieds déchirés / les habitants des roches”
et il en scrute les visages, les “fronts avares burinés” par un vécu qui
reste gravé sur leurs “visages ciselés” dont la dureté manifeste la
force, la ténacité et la résistance de ces gens, meurtris par le difficile
parcours historique qu’ils ont
dû affronter. Les pierres mêmes de ses plages
stigmatisent l’origine dure et âpre de ce territoire, les aspérités et les
obstacles de son histoire. C’est un chant qui vient des “froides profondeurs”
dans lesquelles s’enfonce la terre du poète et où lui-même est immergé,
pour sonder et chercher à capter le secret de la poésie, sa racine de vérité
engloutie qui, lorsqu’elle émerge, dénote une nature terrestre différente, avec
des strates profondes et des fondations occultes. C’est une recherche intense
et tenace que celle de Dražen Katunarić, qui souvent porte à la lumière des fragments de sagesse,
comme par exemple ces lignes de la partie intitulée “Stigma”:
Beaucoup sont
prêts à monter au piédestal, mais sois à la hauteur de la base d’une
montagne qui
bougera sans que personne ne s’en aperçoive
En suivant le
regard du poète, entièrement tourné vers la Terre, la mer, les hommes, les
animaux, le ciel et toute la nature, on peut déchiffrer la trace d’une écriture
plus intime et mystérieuse, qui transmet une respiration cosmique, dont on sent
presque le souffle, comme dans ce dialogue avec le Divin – “Mon Dieu au pas
assuré / apprends-moi à baiser / larmes et feuillages…” – où il
évoque le Dieu maître afin qu’il lui enseigne à accepter la douleur et qu’en même
temps il lui apprenne la beauté de la vie, de la nature… des feuilles, des
champs et des bois, qui sont la lymphe de sa sphère vitale : “île-intérieure”
et “île-territoire”. Le paysage marin de Sutivan se présente vitreux et
évanescent, les bois et les feuilles sont une magie reflétée dans le bleu-vert
de la mer… et quand le temps s’obscurcit ou que le soir descend, les forêts de
pins masquent les ombres flottant sur l’eau… et la mer soudain se fait encre…
où
s’abandonne
presque le regard du poète, en suivant les jets de sa pensée qui lui
apparaissent sur l’eau. La mer devient la page changeante sur laquelle le
feuillage de l’écriture se fait poésie. Le poète, entouré d’une nature aussi
merveilleuse, invoque Dieu, afin qu’il lui concède la “grâce” de la poésie,
pour qu’il lui apprenne, justement, à “baiser / larmes et feuillages…”,
à “dire” avec sa bouche cette poésie qui est vie et nature… Et le poète réussit
à la dire précisément en baisant les feuillages de mots qu’il éparpille sur le
papier, là où il retrouve sa terre, sa mer, son propre monde qui est celui-là
même de la poésie.
Le ton se fait
ensuite de plus en plus subtil, silencieux, presque désespéré… comme dans ces
vers si touchants qui constituent la partie finale de cette prière : “Et ne
le laisse pas couler /ne laisse pas coule”. Dans ce dilemme humain, où
chaque homme se sent couler, la seule chose qui sauve le poète c’est la Poésie
elle-même : “entrer dans la mer et me souvenir d’une parole / que
j’ai cherchée des années durant / de bonheur me mettre à nager”. Et puis,
enfin : “remercier Dieu de la grâce”, où transparaît, limpide, la
conscience de la poésie entendue comme “grâce”, c’est-à-dire comme “reflet du
divin qui en elle resplendit”, et c’est bien cette conscience limpide qui fait
jaillir le remerciement envers Dieu car, ainsi que le déclare Arthur Rimbaud,
“l'amour
divin seul octroie les clefs de la science”. Dans la poésie de Dražen Katunarić, sont évidentes
les traces d’une recherche d’authenticité qui souvent s’articule en jeu joyeux
et, dans le même instant, sait l’impossibilité d’atteindre la Poésie ou de
pouvoir la retenir dans la substance d’un mot. Le poète nous dit qu’on ne peut
la sentir que “dans le mutisme de la fuite”, dans la fugacité même du
langage poétique, puisqu’elle est parole qui enchante mais qui ne se laisse pas
mettre en cage, qui ne se traduit pas en formule, si bien que lui-même ajoute :
“parole chérie qui t’a ravie / dans un coin mystérieux / si je
l’avais au moins sur le bout de la langue / mais je ne l’ai plus”. La
poésie est presque perçue comme une entité vivante, capable de frémir et puis s’enfuir
; c’est “ainsi
que je
devins muet”, précise Dražen Katunarić. La poésie, en
effet, est bien “Une parole sans musique / Une musique sans paroles / Une
parole de silence / Un silence sans parole / Et puis / rien,
vraiment / plus / rien”, comme l’écrit Edmond Jabès. La poésie est
donc un être multiforme et aux multiples perspectives, qui ne se révèle jamais dans
son intégralité puisqu’elle se dévoile dans le mouvement même de la création,
qui ne lui consent pas de fixité car la langue de la poésie est un organisme
vivant, doté de son propre rythme existentiel. C’est pourquoi elle est errance,
mouvement incessant ne laissant au poète qu’un « béret bleu » de marin,
qui immédiatement nous renvoie au « bateau ivre » d’Arthur Rimbaud, symbolisant
ainsi la seule identité possible du poète, celle du voyageur errant : il n’a ni
ancrage ni port mais au lieu de voguer au large, il se retrouve dans la forêt
de la langue, dans le territoire de l’incertitude absolue, où sans cesse la
poésie se régénère elle-même mais duquel il n’y a pas de retour possible – d’où
l’appel, le cri du poète.
L’air que j’ai
inspiré, je le transforme en cri, en appel de marins égarés qui, au lieu
d’être au large,
ont erré dans l’incertitude de la forêt. Seul leur béret bleu rappelle,
au crépuscule, ce qu’ils furent autrefois.
C’est un appel
qui naît dans/du désert, comme l’enseigne Henri Maldiney, du “non-lieu” où la
poésie prend origine. Voici alors que l’univers, que les animaux, les plantes,
les hommes ne sont rien d’autre que le désert “repeuplé” par le langage
universel, par la langue même du poète, dans laquelle le mot “loup” ne révèle
pas seulement le loup mais bien le “monstrum”, l’événement, ce qui se montre et
qui est inouï et, de ce fait, “inscrit un monde différent” –
comme l’écrit Dražen Katunarić – et représente
donc un prodige : l’épiphanie même du monde.
Dans les
prunelles de la bête comme du fou chatoie un lac étrange. Dissocié, impossible
à lier, innocent et bestial, il n'a ni regard, ni pensée. Il s'agit presque
d'un désert. D'un vide inviolé, assourdi, écorché clamant l'accomplissement
comme dans un temple.
Le loup (le
monstre, la terreur de l’inconnu, l’horreur, le mal, la peur, etc.) incarne ici
“la lumière primordiale originelle”, qui existe à travers le regard du poète, à
travers les yeux dun loup qui “voient” dans le noir, dans la “nuit du magma
cosmique” où/d’où la lumière du monde prend origine. Les pupilles voient dans
le désert du néant, où il n’y a que le cri du poète. C’est lui-même que le
poète appelle ainsi à soi, pour “exister”, et c’est aussi le monde qu’il
appelle, le monde qui, par consubstantiation, “se montre”, apparaît. Et voilà
le prodige, le monstrum, et le voyant, le marin errant sur une arche de
salut, qui “dit le monde”, le profère, le porte au-devant de lui, en
l’appelant à lui et
“en
le voyant”, dans ce “vide… clamant l'accomplissement comme dans un
temple”.
Comasia Aquaro
Traduit de l'italien par Pascale Clément-Delteil
Dražen Katunarić è nato a Zagabria, in Croazia,
nel 1954, dopo gli studi secondari, si è iscritto all’Università di Strasburgo
dove ha completato gli studi superiori di filosofia con una tesi su Dostoїevski e la filosofia del sotterraneo.
Bibliotecario, poi editore, sarà
successivamente redattore della prestigiosa rivista La
Lettera
Internazionale e della rivista anglofona Most/The Bridge. In seguito redattore capo
della versione croata della prestigiosa rivista Il messaggero Europeo. Poeta riconosciuto di fama internazionale,
ha pubblicato una ventina di libri di poesie e numerosi saggi. Tradotto in più
di dieci lingue, ha ricevuto numerosi
riconoscimenti importanti tra cui
Le prix du Cercle européen nel 1999.
CIELO/TERRA
Poesia
Dražen Katunarić
Testi scelti e tradotti da Comasia Aquaro dal libro:
Dražen Katunarić, Ciel/Terre,
Les éditions de L’ARBRE À PAROLES, Amay 2008
(Alcuni testi tratti da “BESTIARIO”)
LUPO: PAROLA IMPRONUNCIATA.
TUTTO CIO’ CHE IO VEDO nel mondo non è subito una parola. E prima di diventare
una parola, il lupo era un fuori-legge, uno scorticatore. Da lì il mio
turbamento. Molto giovane mi si faceva spaventare con l’incontro del lupo. Oggi
che l’ho incontrato, ho anche dimenticato come si chiama: lupo. Oppure se
avessi voluto pronunciare questa parola non sarebbe stato che per me stesso. Se
mi divora, che io faccia conoscenza con l’omicida. L’agitazione cresce non
appena si avvicina. Le sillabe si scompigliano, cercano di troncarsi l’un
l’altra, si tengono per la coda, poi balzano alla gola, tutto allora si mette a
girare nel cervello ed è a vuoto.
Lo confesso, non posso trovare riposo sotto lo sguardo
del lupo, le fauci di fronte a me si
contraggono. I denti scintillano, cercano in me una via d’uscita alla loro
brama. Come sfuggire alla proporzione tra selvatico, peli, gioco di muscoli,
probabilmente sanguinanti e queste parole pronunciate nel mio ventre? Tuttavia
questa è l’unica cosa che abbiamo in
comune, il nostro interno, e l’incantamento allorquando è riempito, che
scompare di seguito, come nostra madre.
In questo istante non balbetto, dentro di me dico
qualcosa sulla natura, e sono tormentato poiché anche al lupo devo dire qualcosa.
Ma i suoi occhi sprizzano già, togliendo senso alle mie parole. Lo scricchiolio
dei suoi denti che si chiudono sul vuoto m’interrompe nel mezzo della frase, abitandola con una sorta di
beanza tra le parole, come se tutto al presente dovesse ricominciare nella muta
pulsazione dell’oscurità.
INTRODUZIONE
AL LUPO.
Schianto, colpo della natura, io ho voluto rubare il suo
mistero. Per me non era che un’aria
praticabile, una traccia per il passaggio dei miei piedi. E tutto ciò non
avviene che nella caduta, tanto che io fui pronto a ritornarmene verso la
natura, una volta rafforzate gambe e braccia nella nebbia.
Tutto è cambiato improvvisamente, una volta per tutte: il
silenzio ha regnato, selvaggio, minaccioso. Un lenzuolo bianco nel silenzio dei
rami, tutto era solenne.
A qualche metro davanti a me spunta il lupo. E’ sceso
sulla mia pista, e si è diretto verso la vallata. Ho visto la bestia affondare
incurante le sue zampe nella neve e lasciarvi la sua immagine. Ad essa tornava
il biancore, ogni albero, la corteccia e il silenzio.
LA NATURA
Ho sollevato la grande polvere delle montagne! Corso e
urlato: Ho incontrato il lupo, ho incontrato il lupo!
Non ho dissimulato la mia natura, non più della bestia
all’istante.
Il verde nella foresta. Nella neve. Il resinoso ha
scrollato la sua polvere.
LA COMUNIONE DEL LUPO
ABBA-PADRE, adottami. Ho incontrato il lupo nella
foresta. Mi sento come una pecora dall’anima abbattuta. Colui che trionferà tra
le bestie minori, quando hanno il muso
girato verso la luna. Verso di te. Esso mi brama, più di una chimera, più di
qualunque donna. Esso è il male che vuole divorare. Si drizza davanti a me con
le zampe rigide, il pelo rizzato, gli
occhi iniettati di odio, le mascelle aperte, che mostrano le sue zanne
schiumanti di saliva. Tutto è perfido,
orrido, orribilmente malvagio. Padre, il lupo mi trasfigura. Se tu puoi qualunque cosa, donagli la comunione.
Avvicinati a lui, digli una parola, ma a voce bassa, che sia generoso, divoralo
di bontà. Convertilo in muta e indicibile adorazione.
LUI SOLO
L’ANIMALE inscrive un mondo diverso.
Nelle pupille della bestia come del fuoco riverbera un
lago strano. Dissociato, impossibile da legare, innocente e bestiale, esso non
ha né sguardo, né pensiero. Si tratta quasi di
un deserto.
Di un vuoto inviolato, attutito, scorticato
che grida il compimento come in un tempio, o di una
navigazione verso un’isola immaginaria sulla strada che porta dalla sommità dei
cactus all’alta pianura, dalla macchia al boschetto o alla radura.
Incontrare un fuoco non è lo stesso che incontrare un
lupo,
né una folle, una lupa,
poiché occorre a volte incontrare essa ed esso, venendo
da destra o da diritto, diritto nelle pupille, riempire questo vuoto che ci
tormenta senza tregua, lui solo.
DAVANTI
AL LUPO
Ormai che niente m’importuna, dato che sulla mia faccia
io porto i morsi del lupo
Ora solamente m’accorgo di quanto potevo essere felice
prima che la bestia non fosse scattata.
Potevo piangere sulle tombe degli altri,
saltare fino al cielo.
Potevo cacciare le farfalle violette giganti.
Potevo enumerare tutto.
Vivere era facile prima del lupo.
VIVALDI
(Le
quattro stagioni)
I
cacciatori dai cappelli a piume
non
sanno riconoscere gli animali
nella
foresta
sono
sempre pieni di stupore davanti
ad essi
come se
mai prima d’ora
oh, mai
prima d’ora
li
avessero abbattuti.
ETA’
Età è un piccolo animale fossile che vive dentro
l’oscurità di una brocca, sospeso a una corda
come un secchio d’acqua, con la pelle,
la forma,
rassomigliante a volte a un coccodrillo, alla lucertola e
alla tartaruga. Esso pende immobile. Il nutrimento e
la luce gli sono nocivi, egli gusta una razione
irrisoria a novembre e dicembre, e questa è per
tutto l’anno. Non si espone al mondo se non quando
la gente lo scopre nella brocca, sollevando il
coperchio per puro caso e guardando il fondo.
Su lui stesso, lui ne sa più di tutti.
A nessuna creatura e ancor meno all’uomo
verrebbe in mente di turbare l’armonia nel
fondo stretto, di cacciare l’età dalla sua brocca.
Invecchiando egli apprezza sempre meno
che i curiosi lo scoprano, e non appena lui sente
la luce sulla sua pelle rugosa, Età si rizza
nei pozzi a secco: “Brava
gente, non issatemi più
con la corda! In
basso, io non ci sono!
Resta ancora
qualche parola, intatta!”
Ma loro, indiscreti, lo issano lo stesso poiché
Età viene con gli anni. Giocando con le parole,
si solletica loro il pensiero e vedrebbero qualcosa
d’irreale, di rugoso, di indigente e di triste,
come se loro facessero male all’animale. Ed Età alla
luce è la stessa età nell’oscurità. La
stessa. Solo le parole sono rimaste sul fondo,
sacrosante.
(Alcuni
testi tratti da “ISOLOMANIA”)
SEMPRE
PIU’ A LUNGO RESTO NEL MARE.
Sempre più a lungo resto nel mare.
Nell’innocenza.
Fa caldo fino al tramonto del sole, quando
l’occidente
s’imporpora e le rondini diventano
folli di gioia: esse
superano i cieli. Resto sempre più
a lungo nel mare, a gioire
di ogni onda, dolce come zucchine
a rotelle,
all’olio d’oliva, infarcite di prezzemolo, di aglio e di
basilico. Resto sempre più a lungo
nel mare;
a rallegrarmi del colpo di remo schiumante e della
sua scia,
troverò- io coi miei propri occhi un souvenir
sulla distesa
di sabbia, tra le erbe del fondale: in ogni
ombra
c’è qualcosa del sedimento di un sogno. Io
resto
sempre più a lungo nel mare, guardando
le bagnanti
violette sugli scogli, i gabbiani al fronte
obliquo,
un pesce di traverso nel becco. Io resto sempre più
a lungo nel mare, alla ricerca
di quiete, nelle mie orecchie risuona l’eco dei
giorni e
delle grida gioiose: ascolto l’uomo di casa mia!
Sempre più a lungo, fino a notte, io
resto nel mare.
SALMO SULL’INNUMERABILE
Su
un’isola ho visto trecento capre
e trenta
caproni,
una
moltitudine di pecore,
quattromila
corna,
di
centinaia di arieti impetuosi.
Ottanta
asine e dieci asini tristi,
settecentotrentacinque
cavalli,
due al
trotto, dei loro muli
duecentoquarantasei.
Delle
greggi, delle greggi innumerabili.
Ma
nessun pastore.
Con un
asino mi trovai faccia a faccia,
l’un
l’altro confrontati in una stalla oscura.
Dopo
questa visione, mi misi a cantare:
guardo
la tua isola, Dio sconosciuto,
e
m’inginocchio
davanti
all’opera degli occhi;
guardo
la terra rossa,
opera
dei tuoi piedi feriti,
guardo i
tuoi alberi vigorosi,
opera
dei tuoi pugni e delle tue unghia.
Di
niente devi avere vergogna.
Né del
cimitero, della frana, dello scheletro,
delle
pigne inutili.
Né del
fico sterile nella pietraglia.
Né degli
storpi fatti re.
Né delle
ossa che tremano disperse
sotto
terra e cantano le lodi del Signore.
Né degli
asini che si guardano occhi negli occhi
soli con
gli uomini, soli con te.
UNA LETTERA DALL’ISOLA
Da nessuna parte nessuno.
Il mare danza intorno all’isola
e diluisce la sua solitudine
(con la sua schiuma leggera negli scogli).
Se passa un asino nella giornata,
va bene!
Se passa un paesano
a cavalcioni
va bene lo stesso!
Se non passa nessun asino!
Se niente passa!
Poco importa chi viene da me.
Il vento. La luna. Il tagliapietre.
Il provveditore.
Che sia un uomo o un pesce,
un riflesso o un soffio,
un colore o un carrube,
una parola secca o grossolana,
è legale!
Che sia un’onda o una risata nella vigna,
l’oscurità o un serpente nella bora,
che sia una cicala nel bosco
o una voce bassa, più bassa, più bassa ancora,
è uguale!
La solitudine!
E ancora la solitudine!
ISOLOMANIA
Isole fredde
e muti isolani
dai piedi lacerati
gli abitanti delle rocce
nella roccia ritagliati
sognano di calpestare il fango
di prostrarsi davanti a una statua d’argilla
di vangare senza stupore,
senza gettare pietre in aria
circondate da fredde profondità
tagliate dall’origine della pietra
dai silenzi del largo
sparse in frammenti
di resina indurita
le isole s’impauriscono
evitano uomini e reti
restie all’amore.
Fronti avare segnate,
visi scolpiti, scarpate dure
avarizie che noi contorniamo
con un misterioso uncino.
Polveri di grani dispersi dai monti calvi
larve di abissi blu
si sono strappati gli occhi e le orecchie
vogano al nome delle erbe e delle seppie stordite
il mare batte loro una guancia
il sole colpisce l’altra
esse si presentano come visi.
Giacciono instancabilmente al di là del mare
non s’interpellano
desiderano essere infilate intorno al collo
punte in collier di zampe e di pinze di granchi.
Al mare e alla divinità,
a quella da cui loro hanno disertato
non ci tengono a tornare
dalla balia dura e inaridita.
Come sono cadute restano.
Vite a brandelli
pacifiche e mute nella solitudine
distendono l’ombra del giorno
voltano i nostri
occhi verso l’alto
voce raggelata, ripida
arrochita per l’eternità.
SALMO DELLA MARCIA SULL’ACQUA
I tuoi piedi sono scivolati sulle anse dei torrenti
dolci e leggeri
camminando tra le creste marine
tu non hai barcollato alla minima onda
le profondità dei fondali non ti hanno inghiottito
né le onde ti hanno ricoperto con la loro ondata
il mare spaccato invece delle piante dei tuoi piedi;
oh! come questo era coraggioso e tenero;
mio Dio dal passo certo
insegnami a baciare lacrime e fogliame
il corpo viola e aereo
tu hai preservato il mio piede dalla caduta
adesso posalo sull’onda
e non lasciarlo affondare
non lasciar affondare.
E’ COSI’ CHE IO DIVENTO MUTO.
La mia gola è secca come una tegola
e la mia lingua s’incolla al mio, palazzo
(Il Salmista)
Entrare nel mare e ricordarmi di una parola
che ho
cercato per anni
per la
gioia mettermi a nuotare
coi
gomiti fare schiuma
con le
gambe cacciare dei gridi
abbracciarla,
giocare con lei come un delfino
ridere
come un delfino
gettarla
sulla riva
e di
nuovo ridere
come non
mai
ripeterla
a voce alta
mille
volte
ringraziare
Dio
della
grazia
per la
quale in un istante
guarì la
mia anima.
In un
istante.
Uscire
poi sullo scoglio
il corpo
grondante
ancora
bagnato, ancora bagnato
dimenticarla
allora,
nello
stesso istante.
Il cuore
batte follemente
il mare
e la terra si scansano
nel
mutismo della fuga
parola
diletta che ti ha incantato
in un
angolo misterioso
se
l’avessi almeno sulla punta della lingua
ma io
non ce l’ho
più.
Ed ho
pensato di tornare nel mare
e partii
alla ricerca nella schiuma
spudorata
del mare
e con le
onde mi riacchiapparono altre
parole più
profonde
tristi e
risibili
strane e
inutili.
Questa
non è la mia parola alata,
dolce al
palato e al sogno.
Il mare
la nasconde forse nelle alghe
la
sabbia la nasconde all’istante
dove il
pesce la inghiotte con voluttà
come
Jonas.
Le onde
del desiderio hanno ostacolato il mio soffio
il
freddo l’ha inaridito e appassito.
Tanto
che io divento muto.
(
Testi tratti da: “ STIGMA”)
La via è così bella sotto la sopraccoperta della
copertura. Con un supporto solido per la sofferenza alla quale tu non vuoi
rinunciare, neanche a prezzo di sacrificio. Molti sono pronti a salire sul
piedistallo, ma sia all’altezza della base di una montagna che si sposterà
senza che nessuno se ne accorga.
******
L’aria che ho inspirato, io la trasformo in grido, in
appello di marinai smarriti che, invece d’essere al largo, hanno errato
nell’incertezza della foresta. Solo il loro berretto blu ricorda loro, al
crepuscolo, ciò che furono un tempo.
******
POESIA
EFFIMERA
Un
solitario ammucchia le foglie nelle sue braccia
e le
porta attraverso il parco
Ha
stretto forte le foglie affinché
non gli
sfuggano via
nel
parco deserto
per
questo ci sono parecchie foglie
invisibili, ingiallite
che il
vento trascina sulle sue spalle
per
questo ci sono tre o quattro foglie
che il
vento senza gioia arraffa sulle spalle.
Tu non
puoi, oh solitario,
stringere
tra le tue braccia tutti gli istanti commoventi,
non lo
puoi, oh maestro.
Ogni
foglia ha già fatto il giro del fuoco
e dal
palmo se n’ è fuggita
nel
vento.
ADESSO
SO PERCHE’
A Baudelaire
Non ho mai parlato dal fondo del cuore, cantato di
un’anima un po’ lieta. Non facevo che dormire per giorni e giorni, lunghi e
corti. I miei occhi sono incrostati come le finestre della vecchia casa. Da
cinque anni non l’ho aperta. Ho lasciato accumulare la polvere, le ragnatele, i
millepiedi, ho tollerato che delle terze persone mi rimproverassero di essere
un debosciato necrofilo. Sul letto, i corpi
intorpiditi dei miei amori, presi
da concupiscenza. Destino assopito in un istante. Lungo i muri delle formiche
s’arrampicano e scendono in nere processioni funebri, salutando al passaggio.
Vetri insudiciati da una pioggia di bile, insetti raggomitolati sopra le cornici,
frammenti di occhi che spiano nell’oscurità del soffitto, aumentando la febbre.
E ben altre cose ancora, tele di ragni. Io sloggio, sloggio. Occorre sloggiare
da qui.
(Testo
tratto da “ PROVINCIA DESERTA”)
DELLA
TERRA
GLI ARABI dall’inverno cominciano ad ammucchiare le
valute forti per i loro viaggi alla Mecca, là dove brilla la pietra nera.
Questo non è per niente disprezzabile. Anch’io li imito,
e chiudo dell’argento in un posto sicuro, per visitare i luoghi santi che meritano
il massimo del mio stupore. Quando arrivo laggiù resto accovacciato ore e ore
all’ombra di un fico, coperto da un cappuccio, e a volte mi stendo per terra a
caccia di una voce gutturale, prossima o lontana. Sono paziente per natura e
soprattutto quando attendo l’Ignoto. Passa un lungo tempo, e se non la capto in
me, mi alzo, e lentamente cammino fino all’agenzia più vicina, in cerca di un
nuovo biglietto per un altro tempio. Con me porto sempre un po’ di cenere
fluttuante.
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