giovedì 9 febbraio 2017

FLAVIO ALMERIGHI - CALERANNO I VANDALI



Flavio Almerighi è nato a Faenza il 21 gennaio 1959. Fin da ragazzo si è occupato di poesia, scrittura, radiofonia, teatro. Sue le raccolte di poesie Allegro Improvviso (Ibiskos 1999), Vie di Fuga (Aletti, 2002), Amori al tempo del Nasdaq (Aletti 2003), Coscienze di mulini a vento (Gabrieli 2007), durante il dopocristo (Tempo al Libro 2008), qui è Lontano (Tempo al Libro, 2010),Voce dei miei occhi (Fermenti, 2011) Procellaria (Fermenti, 2013), Caleranno i Vandali (Samuele, 2016). Alcuni suoi lavori sono stati pubblicati da prestigiose riviste di cultura/letteratura (Foglio Clandestino, Prospektiva, Tratti). Fa parte della redazione della rivista telematica Neobar.








DOCUMENTO  - 1

un uomo abbraccia la luna
ultimo arrivato di altri mille,
il soggetto è complemento
dov’è il sogno americano?
Caldo approssimativo
cucine umide,
ricominciare dentro non so
chi sei da dove vieni, firma qua.
Cerchiamo prime basi,
come ti chiami?
Il documento oltre alle cifre
non riporta nomi.
Uno su tre ammessi,
tre su dieci arrivati
dieci su trenta partiti
trenta su cento scampati
cento su mille deportati
coi risparmi di una vita.

 



 


NOTE SUI DIECI PER CENTO

parità allo zero lordo,
aggiungi qualche cifra a destra
della virgola, lacrime e popoli
lasciati attraversare contando
sull’amichevole tempesta
pronta a salvare i vandali.
I morti sparlano allarmati
arrossiti come il cielo
dalle beresine di ogni giorno,
riposa suggestivo Père lachaise,
mia moglie fa la lavatrice
col nuovo ammorbidente.
Ustica data in pasto ai pesci
inservibile senza consolazione.
Quale insolenza, tu eri là
il tramonto una trave nell’occhio
di chi non sa vedere
l’anima stramorta come un sahel.
Quelli, il nostro mare
stanno bagnandolo col sangue,
guadagnano la terra a morsi
soffrendo pazienti i dieci per cento
impossibili per noi
chiusi e disgregati e secchi.





CANTO LA MORTE  SPACCATA
                                                         
                                                                     a Uwe Gressmann

gli animali prendono terra
gli uomini sempiterni cappotti,
se volete ripassare l’inedito
rivolgetevi altrove
io non canto fiordalisi,
ma una spiaggia
di profondità estreme
perduta nel sotto sopra
di chi è smarrito
da sempre, ovunque
senza nome tace,
canto la morte spaccata
paradosso di luminosità,
la guardia al labirinto
difende il foglio
compete col vento
grande il bisogno
di piccoli uomini
coi cappotti finiti,
giacinti non fiordalisi,
anime che porto addosso

 


 


ARTE & MESTIERE

edilizia, mestiere di ginocchia e pazienza
manovale specializzato
se ti manca l’equilibrio stai zitto
altro che dottori,
avvertiremo noi la famiglia
e la televisione avrà cura dei tuoi,
non importano le date
incise sul cemento fresco
prima di posare un davanzale,
non importano le soglie, le bestemmie
in tutti gli accenti nord e sud
non importa saper scrivere sui muri,
arrampicarsi come meticci,
ciascuno vedrà la propria ombra
quando il sole smetterà di rompergli la faccia.
Sia stato o no lavoro nero, finita la giornata
tutti insieme, chi non c’è non c’è,
ci faremo un bianchetto al bar impero.
Berretto di carta e nazionale semplice,
boccate di fumo e di calce,
l’edilizia è stata un’arte
non è più un mestiere
 


ANNI IMPICCATI

l’estate scorsa varsavia dannata
è insorta, e oggi i vincitori di ieri
a stendere mutande
dietro reticolati di spine
ottusi di fascismo e malinconia.
le sette del mattino
il risveglio il gazzettino
il lavoro e beato chi ce l’ha,
dov’è la civiltà, tu morirai di pioggia
al primo cielo nero.
Anni impiccati si abbattono
senza avvisare su spalle tirate
come freni a mano,
bella la vita in cui arrabattare
fino a sera è il lusso.
Essere è poco tempo, l’eternità
rende i termini della recessione,
maiali e uccelli immobili,
davanti banditi in uniforme
dietro va tutto bene.




AVEVO IL VENTUNO

scritte al neon insegnavano inglese
un televisore l’italiano.
l’idea di essere invisibile mi venne allora,
chiamavano il mio numero
avevo il ventuno, alzata la mano
dicevano che non ero io.
Forse riavrò in regalo il mio tempo
un velo sulla faccia da non ricordare,
il grembo unico testimone
non un sentire appiattito sui bisogni
che genera leggi indecifrabili ai più
e ai contrari plotoni di polizia
 







LADY OUT

Si ritrae, è tanta neve
bollita dai camini sui tetti,
poche pozzanghere a terra
in memoria di giornate
mai percorse,
le mani prese da altro
le conversazioni
sul volgere del tempo,
le frontiere non erano più
un minuto soltanto,
ma colpi astratti di righello,
piedi freddi dritti al cuore
Sappiamo molto bene
quanto, come le donne
ideologicamente si ritraggano
al primo inverno.


 
STRADIVARI FACEVA VIOLINI

Stradivari faceva violini
Placido Rizzotto rivoluzioni
col fazzoletto rosso
senza sfumature al collo:
è noto che il legno cresciuto
nei boschi della glaciazione
disperda melodie più dolci,
la musica non si imprigiona
l’altro andava via romantico
insieme alla rivolta,
e alla parlata onesta
dell’operaio col padrone.
Entrambi lasciati indietro
da storie e geografia,
l’incertezza è una cifra
molto cara da pagare,
sono stanco di violini,
stanco di rivoluzioni
da cui sgorgano melodie
prive di pensiero






LA STESSA PIAZZA
Sento fruscio di solitudine,
certo all’inizio
tutti i segreti sono capriole,
punte di voyeurismo
passate dalle tue mani
alle mie con moto scosso
senza guardare indietro,
rifaranno insieme
la stessa piazza endocrina.
Il vuoto è sempre vuoto
rapisce figli di nascosto
dà cantonate sentimentali,
segni e burro di cacao
per non vederla dissolta
quest’età fuggita,
siccome eravamo
esercitazioni del tempo
punti di non ritorno
prego non divaghiamo,
cerchiamoci le mani. 



MEMORIE DI  UN PULITORE DI CARROZZE

sabato,
il sacco nero pesa vuoto
come la notte intorno,
trovo inutile controllare l’ora
come qualche raro viaggiatore
fa con l’unica voglia di partire
senza dire dove scenderà
le tendine ferme
divaricate poco più chiare
la stagione infinita,
io non godo le stelle
all’uscita prendo un po’ d’aria
prima di un’altra vettura
l’ultima parte per prima,
debbo smontare in fretta
non mi armo, me ne andrò
con la mia raccolta
di vuoti a perdere.
I bambini dormono
offesi perché nati,
sono qui e immagino
che non è finita,
l’anima nel sacco nero
conserva leggerezza
sotto le spalle indolenzite.

 
BIGLIETTO D’AUGURI

biglietto d’auguri
spedito dal profumiere
per la madre di mia figlia,
tu cosa ci fai qua
con l’ala spezzata, raccolto
malgrado tutto imprendibile?
Che ne sai della morte,
io che scrivo mi occupo d’utopie
e di qualcun altro
che faccia il piacere,
non è serio startene qui
a crepare in silenzio.
la serata è fredda
nessuno ricorderà,
afferrarti era impossibile
confido nella pietà di un gatto.




FLAVIO ALMERIGHI



SONO STATO BENE

un tempo, una volta
ho avuto fantasie migliori
più discutibili
sto attraccato a un caffè,
sbarbato e in avaria,
barca in darsena
senza bandiera
le signorine ancheggiano,
il corso diventa
cruna dell’ago,
né belle né brutte
primi piani croccanti
pungono con distacco.
E’ quasi sera,
non ho fretta, resisto
sulla mia piastrella
a osservare l’infinito
mentre sparisce,
sto per morire,
nessuno me compreso sa
quanto sono stato bene



PARADOSSO DELLA POESIA

esulta canta si deprime
non parla e dice,
dopo un po’
fa molto male agli occhi








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